Il romanzo Le seduzioni del tempo di Licia Fierro narra la storia di una vita. Non si consideri riduttiva questa definizione, perché una vita è un universo che abbraccia aspetti infiniti e che quasi mai corre su un binario unico e retto.
Questo è forse il tema che predomina nel libro: la dualità. La protagonista, Giulia Nepi, è una figura segnata e le ragioni delle sue ferite e cicatrici sono presentate fin dal principio: ragazzina ebrea romana, deportata in un campo di sterminio, sopravvissuta. Tornata alla vita, Giulia decide di vivere, senza pietismi né vittimismi – aspetto stilistico che merita una menzione speciale – eppure avrà sempre di fronte, in maniera consapevole o meno, voluta o no, due strade. Studia, nella famiglia di zii toscani che la accoglie come una figlia, e sceglie la giurisprudenza, più precisamente la magistratura, ma la sua passione, i suoi libri del cuore sono i classici della filosofia: l’oggettività, la coerenza, la linearità da una parte, la libertà dello spirito dall’altra. E di filosofia in questo libro ce n’è tanta: Gorgia, Socrate, Platone, Aristotele, Abelardo ed Eloisa, Leibniz (seppur non espressamente citato, ma presente attraverso la sua teoria delle monadi), Kant, Hegel, e tanti altri; compare ad un certo punto perfino un verso del Dies Iræ (confutatis maledictis flammis acribus addictis).
Giulia si sposa, giovanissima, con l’avvocato Aldo, che, come la giurisprudenza, rappresenta la sicurezza, il dovere, la buona vita sociale di Firenze, città in cui vive e lavora, e, ancora una volta, la vita: l’amore è profondo, sincero e fedele – come dimostrano la tolleranza nei confronti dei tradimenti e la dedizione nella fase della malattia – ma si limita alla carne, ai sensi, al sentirsi vivi. Per provare l’amore spirituale, la corrispondenza d’amorosi sensi, ha bisogno di un altro uomo, Enrico, professore e intellettuale, con il quale la protagonista sperimenta per una vita un rapporto totalmente “incorporeo”: non ce n’è bisogno, il suo amore è soddisfatto nell’anima. Ecco ancora una volta la dualità, quasi l’incarnazione della Ragione e del Sentimento della Austen.
Tutti i personaggi cosiddetti secondari, sebbene ognuno ben delineato e dotato di una propria storia che potrebbe essere sviluppata singolarmente, contribuiscono ad alimentare il “cosmo” di Giulia che, pur nelle sue naturali e comprensibili fragilità, è una donna libera, borghese ma non imborghesita, emancipata, che ragiona, valuta e decide, nel lavoro come nella vita, con onestà, misura e senza distinzioni, sia che abbia a che fare con la fantesca Laura, aiuto di una vita, sia che si confronti con i suoi colleghi o con l’amica(?) Letizia.
Due personaggi sembrano mettere in crisi il clima di dualità, o per lo meno di non totale linearità che tanto può coinvolgere il lettore: il fratello Fulvio e la portentosa figura di Gad. Il primo, scampato alla cattura e alla Shoah, trova rifugio in Israele e diventa figura di spicco della vita nei kibbutz: sembra non avere dubbi, esitazioni, la sua vita è incentrata e basata su una Fede religiosa e politica che alimenta anche la famiglia che si va creando. Il lettore lo incontra solo una volta e questo è tutto ciò che sa di lui; forse può essere solo apparenza, ma non è un caso che la stessa Giulia, proprio come noi, non lo rivedrà più, avendo solo sporadici scambi epistolari. Mi sono fatto l’idea che lo percepisca lontano, diverso, un superuomo nietzschiano troppo lontano dalla sua natura: lei stessa, ormai donna matura, preferirà ricordarlo solo come il ragazzino che giocava dietro il Portico d’Ottavia.
Gad è il novello Mosè che ha traghettato il popolo d’Israele verso la nuova salvezza, è l’incarnazione della coscienza e il modello su cui Giulia costruirà, o meglio ricostruirà la propria coscienza. Nell’attraversamento del Mar Rosso/Germania, mentre vede la distruzione degli Egiziani/Tedeschi, lei, ragazzina diventata troppo presto adulta, desidera la vendetta totale, ma Gad pronuncerà invece quello che sarà il monito di un’intera esistenza: la vita ti insegnerà la misericordia. Questa figura mastodontica, che per certi versi ricorda alcuni personaggi de La Tregua di Primo Levi, non si vedrà più se non quando ormai è vecchio e morente. Solo allora anche egli perderà la sua aura granitica e mostrerà quell’umanità che lo rende ancora più caro e vicino in quanto debole come tutti noi: non ha saputo, potuto o voluto non cedere alla vendetta. Egli stesso è venuto meno al proprio insegnamento.
La storia di una vita, che in questo caso si snoda per tre generazioni, non può prescindere dal tempo che passa, eppure l’autrice ha il merito di mettere il lettore in condizione di non accorgersi del suo trascorrere, proprio come accade nella vita reale, nella quotidianità. Tuttavia, a ben pensarci, è proprio il tempo che apre e chiude questo romanzo: la protagonista è figlia e vittima del suo tempo che, da principio, appare carnefice; Giulia però non è tra i Sommersi, ma tra i Salvati, e allora si appropria del tempo vivendo con intensità, certo con alti e bassi, finché, ormai anziana e ancora una volta apparentemente vinta, trova il modo di sconfiggerlo definitivamente: l’arte, il pensiero, la letteratura oltrepassano la miseria temporale e volano verso l’eterno.
Vorrei spendere due parole, infine, sullo stile di Licia Fierro: asciutto, limpido, vivido, lineare, caratterizzato da parole scelte con precisione, talvolta anche dal lessico più desueto, e mai sprecate. La capacità descrittiva è notevole: in poche righe si ha la sensazione di vedere concretamente ciò che è solo sulla carta.
Certo non è un libro che si può leggere con superficialità: pur nella sua brevità – otto capitoli – è un romanzo impegnato e impegnativo, importante, serio e maturo, che merità altrettanta serietà e maturità. Concludendo, ad esso ben si adatta la frase di Jean-Jacques Rousseau: Non visse di più colui che contò un maggior numero di anni, ma colui che più sentì la vita.
Federico Micciarelli
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Gennaio 2024
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